Durante il periodo fra il tardo autunno 1944 e l’inizio della primavera 1945 quando il fronte si stabilizzò oltre la linea Gotica, l’Imolese divenne l’immediata retrovia del fronte tedesco e soffrì la repressione nazifascista e i bombardamenti alleati. Fra i molti luoghi in città che hanno legato il loro nome alle vicende della 2a guerra mondiale abbiamo scelto di ricordare il Palazzo Comunale, luogo storico dell’esercizio del potere amministrativo. Imola fu liberata il 14 aprile 1945 da truppe polacche e dalle forze di Resistenza; la mattina seguente i Comandi Militari Inglesi e Polacco si incontrarono ufficialmente con gli esponenti del CNL. Dal 15 aprile al 4 agosto 1945 il Palazzo Comunale ospitò i governatori civili alleati Burbury e Monson. Nella cosiddetta “sala verde” si tenevano inoltre le riunioni del CNL imolese. Una lapide sulla facciata del palazzo al numero 25, riporta il testo della motivazione per l’attribuzione alla città della medaglia d’oro al valore militare nel 1984. Dove il palazzo continua con i portici di via Emilia, una lapide ci ricorda invece la grande manifestazione di donne del 29 aprile 1944 organizzata per reclamare dalle autorità comunali la distribuzione di generi alimentari razionati, e che si concluse con l’uccisione di due donne. Nell’androne del palazzo varie lapidi ricordano le vittime di guerra: da ricerche fatte risulta che i militari del comune di Imola caduti o dispersi su vari fronti e in prigionia furono circa 480, di cui 107 partigiani e 56 RSI. Le vittime civili per cause belliche furono circa 550, di cui il 65% uomini, 20% donne, 5% bambini e 10% anziani.
Attraversando la piazza Matteotti in direzione dei portici che costeggiano la via Emilia si giunge all’imbocco del vicolo Giudei, in un angolo veramente suggestivo della città antica: la lapide qui posta nel 1998 condanna la persecuzione razziale e ricorda che questa area era un tempo abitata da una comunità ebraica. Anche se numericamente esigua, la presenza ebraica a Imola è infatti documentata a partire dalla seconda metà del Trecento fino alla fine del Cinquecento – dopodiché fu solo sporadica – soprattutto tra l’attuale via S. Pier Crisologo (dove c’era il macello ebraico) e via XX Settembre. Documentata anche la presenza di una sinagoga nell’attuale via Troni e di un cimitero ebraico. Non si trattò comunque di un’area delimitata come in un ghetto poiché le abitazioni erano sparse in tutto il centro storico. Le attività più diffuse nella comunità furono legate alla copiatura di libri, all’agricoltura, al commercio oltre che al prestito di denaro di cui si servirono le famiglie dominanti imolesi quali gli Alidosi, i Manfredi, i Riario. Interessante anche sapere che la Biblioteca Comunale di Imola conserva una Bibbia ebraica miniata di grande valore e di pregevole fattura, realizzata probabilmente a Toledo in Spagna nel Quattrocento e poi arrivata in Italia a seguito di una famiglia sefardita.
Rimanendo sotto i portici della via Emilia all’angolo con via Giudei, sopra il portone che fu del Cinema Centrale al numero 212, il visitatore curioso noterà un affresco quattrocentesco che è stato recentemente recuperato. Raffigura otto stemmi di altrettanti antichi ospedali cittadini che si unificarono nel 1488 in questa stessa sede che già ospitava l’Ospedale dei Devoti dalla seconda metà del 1200. La funzione di questi ospedali – espressione della charitas cristiana – era la cura degli infermi, dei poveri e l’assistenza ai viandanti e ai pellegrini. L’unione dette vita all’Ospedale di Santa Maria della Scaletta, nome poi assunto dal nuovo grande ospedale pubblico, sito nell’odierna via Amendola, i cui lavori iniziarono nel 1781 sotto la direzione di Cosimo Morelli.
Questa peculiare vocazione ospedaliera di Imola è una caratteristica proseguita nel tempo attraverso la realizzazione del grande complesso dell’Osservanza alla fine dell’800 e, sulle prime colline, del sanatorio di Montecatone negli anni trenta. Nell’inverno del 1944-1945 La Croce Rossa, il Vescovado e personalità imolesi cercarono di ottenere dalle parti in guerra il riconoscimento di Imola quale “città ospedaliera”: la città infatti era gremita di ospedali, sia civili che militari e molte ville o istituti erano stati riconvertiti a questo scopo. Purtroppo la lunga e complessa procedura non ebbe esito e venne ottenuto solo il permesso di segnalare i luoghi di cura con grandi croci rosse sui tetti, nella speranza di evitare i bombardamenti.
Tornando sui propri passi lungo la via Emilia nel tratto a ovest ci si imbatte immediatamente nella mole della ex Casa del Fascio. Il complesso sorto negli anni 1934-1936 comprende gli edifici della Casa del Fascio con la torre, e del Centro Cittadino con la galleria; furono inaugurati da Mussolini nell’ottobre del 1936. Durante la guerra fu ovviamente sede militare sia italiana che tedesca. Le caratteristiche costruttive, i materiali utilizzati e il linguaggio architettonico esemplificano in maniera chiara la retorica del tempo: si notino in particolare le sculture presenti sulla torre angolare tra via Emilia e via XX Settembre. E’sicuramente una presenza stridente nel tessuto urbanistico del centro storico; fu edificato abbattendo la sede del mercato delle erbe, una grande struttura coperta in ghisa con eleganti decorazioni floreali.
Proseguendo lungo la via Emilia e poi prendendo a sinistra la via F.lli Bandiera, giungiamo alla Rocca Sforzesca che fu luogo di detenzione tristemente noto nell’epoca in considerazione. Dal 1943 al 1945 oltre 220 uomini e donne vi subirono carcere duro e torture da parte delle SS tedesche e della Brigata Nera fascista. Nel vialetto di accesso vi sono lapidi murali che ricordano questi tristi avvenimenti. Del resto, fino ad alcuni decenni fa, questa fortezza non evocava pensieri graditi nella maggioranza della popolazione, che ne ricordava la funzione carceraria svolta per quasi cinque secoli, a partire dalla definitiva sottomissione di Imola al Papato nel 1525. Nella seconda metà dell’800, quando divenne carcere provinciale, la Rocca giunse ad ospitare fino a 150 detenuti al giorno, raccogliendo i condannati a pene più gravi. Nel corso dei secoli, alcuni di questi prigionieri hanno lasciato la loro particolare testimonianza sui muri delle celle, come testimoniano alcune scritte risalenti alla fine del ‘500 rinvenute nel piano interrato della torre di sud-est e nel mastio, e soprattutto quelle presenti in due locali angusti sul lato sud della Rocca. Queste scritte, databili tra il 1854 e il 1856, sono tracciate con il colore rosso ricavato dalla polvere di mattoni sbriciolati e impastati con l’acqua, e recano testimonianza delle dure condizioni di detenzione. Due detenuti in particolare, identificabili in Giuseppe Parini di Castel Bolognese e Luigi Fuligni di Tossignano, ricoprirono quasi integralmente le pareti della loro cella con disegni e rime i cui temi ricorrenti sono l’ingiusta carcerazione, il ricordo della vita fuori dal carcere, i ritmi e i rituali della vita da carcerati.