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Enogastronomia
Buon appetito!
L’eccellenza della cucina imolese, dalle tagliatelle della nonna ai menù del San Domenico fino a New York, in un appassionante racconto di un maestro, Valentino Marcattilii
Valentino Marcattilii e Massimiliano Mascia
La cucina antica, quella dell’orto, delle tagliatelle e dello stufato era uno spettacolo. Si andava all’osteria a scaldarsi di fronte al camino e a giocare a marella, l’antesignana del biliardo. Tutto era buono, sapevi che la pasta l’avevano preparata la nonna, il marito, con la figlia a dare una mano a tirare la sfoglia. Mica era cibo da scaffali. E ci si
abbuffava, 25 tortelli in un piatto, non uno di meno. Poi arrivammo noi, era il 7 marzo 1970, con i garganelli al ca- viale e l’arrosto di vitello con crema di funghi e medaglioni di cipolla piccante.
“Con il San Domenico nacque la cucina moderna”, dicono oggi, ma allora gli imolesi storsero il naso... Che voglio- no, questi? A tavola ci sentia- mo romagnoli, siamo gente da osteria, mica “snob”, e invi-
tavano i turisti a cenare altrove. Ma il tempo ci ha dato ragione. La nostra gente ha capito e oggi guarda con orgoglio al San Domenico, che è un patrimonio di tutti. Quarantacinque anni fa andare a pranzo fuori, la domenica, era un premio alla Signora, che così non do-
veva lavare i piatti. Ora è stare insieme in uno
“spazio per la felicità proposta con eleganza riservata, in ambienti raffinati, dove i clienti diventano ospiti”.
La cucina della tradizione rivisitata e resa moderna: questa è la strada che abbiamo intrapreso - assieme a tanti ristoratori imolesi - da quando l’epoca delle osterie cominciò a tramontare.
Due le intuizioni che hanno cambiato la storia del cibo a Imola e in Emilia-Romagna: 1) il col- po di genio di Gian Luigi Morini, il fondatore, che portò al ristorante la cucina delle famiglie nobili grazie ai suggerimenti di Luigi Vero- nelli e all’esperienza di Nino Bergese, grande cuoco che vantava una carriera di prestigio nelle cucine di re e potenti italiani e stranie- ri. Su tutto, la cura ai particolari: le tovaglie
di lino pesante colore fucsia, i bicchieri di cristallo, i sottopiatti d’argento, i candelieri, le posate e i portafiori; 2) il fatto che, un giorno, mi allacciai le scarpe e sono partito. Arrivai infatti al San Domenico da ragazzino, a 16 anni; dopo sette anni di apprendistato con Nino, a 23 cominciai una serie di stages in Francia: l’Auberge de l’Ile, Troisgros, Madame Point, Vergé, come dire il meglio dei fornelli di Francia. Tornato a Imola, la nostra “cucina di casa”, tradizionale e moderna in egual misura, l’abbiamo poi esportata all’estero. Monterey Plaza (California), Donatello a San Francisco, Ristorante La Main à La Pâte di Parigi, Palm Bay Hotel a Miami e il Conrad Hilton di Hong Kong. Nel 1988 aprimmo a New York, al 240 di Cen- tral Park South. Gli americani non ci vedeva- no più come il ristorante tagliatelle e man- dolino, dove andare in jeans e magliettina. Eravamo rispettati e studiati. Tanto che, Brian Miller, critico del New York Times, ci assegnò 3 stelle: riconoscimento che non aveva mai dato prima a un ristorante italiano. L’esperienza americana fu straordinaria perché lì imparai l’arte di amministrare un ristorante, a fare davvero i conti.
Il dehor del Ristorante San Domenico
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